Friday, July 27, 2001

G8 di Genova: parla Vittorio Agnoletto

IL CAPO DEI NOGLOBAL SPIEGA COS'E' SUCCESSO NEGLI SCONTRI CHE HANNO PROVOCATO LA MORTE DI CARLO GIULIANI

di Mauro Suttora

Oggi, 27 luglio 2001
                      
Vittorio Agnoletto è tornato a casa. Il capo dei contestatori di Genova ha lasciato il capoluogo ligure dopo il funerale di Carlo Giuliani, il 23enne morto durante gli scontri, ed è approdato a Cesano Maderno (Milano), nella sua Lombardia, per tenere un comizio alla festa di Rifondazione comunista della Brianza. Qui lo incontriamo.

Agnoletto, 43 anni, è diventato famoso nell’ultimo mese come portavoce del Genoa Social Forum (Gsf), la coalizione che ha organizzato le proteste contro il vertice dei G8, gli otto Grandi che governano gli Stati più industrializzati della Terra.

Adesso è nell’occhio del ciclone: accusato dalla destra di avere tollerato, se non addirittura fomentato, gli incidenti, e invece osannato a sinistra come l’artefice di un corteo che ha fatto scendere in piazza ben 250mila persone contro il governo di Silvio Berlusconi.

«Ma io sono diventato portavoce del Gsf quasi per caso», si schermisce lui, «soltanto perché a un certo punto dovevamo nominare una delegazione che incontrasse il ministro degli Interni e il capo della Polizia. Al Gsf aderiscono un migliaio di associazioni, di cui 400 straniere: erano stati fatti una decina di nomi, dovevamo ridurli, alla fine uno si alza proponendo il mio nome. E tutti si sono trovati d’accordo».

Non è un mistero che gli «antiglobalizzatori» siano diversissimi fra loro: si va dai comunisti ai cattolici, dalle Tute bianche dei centri sociali ai ragazzi degli oratori, dall’Arci a Pax Christi. 
«Sì, ma contrariamente a quello che succede quasi sempre in Italia, e cioè che basta essere in quattro per non trovarsi più d’accordo e cominciare a litigare, fin dall’inizio nel Social Forum si è creata un’atmosfera di collaborazione, in cui nessuno ha mai preteso di fare il primo della classe».

Anche dopo la battaglia di Genova? 
«Sì. Anche in questi ultimi giorni nessuna delle organizzazioni si è dissociata. Anzi, proprio oggi Pax Christi ha riconfermato la sua adesione. D’altra parte, fra noi c’è sempre stata molta chiarezza sul rifiuto della violenza».

E allora perché sono state spaccate vetrine, lanciate bottiglie molotov, bruciate auto, attaccati poliziotti? 
«Questo lo ha fatto chi non aderiva al Gsf. Come le cosiddette Tute nere del Black block. Noi abbiamo sempre detto che avremmo praticato la disubbidienza civile a mani nude, e così abbiamo fatto. Quei gruppi, invece, hanno attaccato sia noi che la polizia. I Cobas, per esempio, che si dovevano trovare in piazza Da Novi, quando sono arrivati lì hanno trovato le Tute nere. Allora, proprio per non mischiarsi, se ne sono andati verso piazza Tommaseo. Ma appena si sono mossi la polizia li ha caricati. Loro, non le Tute nere».

Però durante il blitz notturno nel vostro quartier generale sono state trovate bottiglie incendiarie, roncole, coltelli e armi improprie. 
«Su questo voglio fare chiarezza. Ci avevano dato due scuole, una di fronte all’altra. In una c’eravamo noi del Gsf, con l’ufficio stampa, l’ufficio legale, l’assistenza medica. L’altra era per le Ong, le Organizzazioni non governative aderenti al Gsf. Poi però, nei giorni precedenti al vertice, ha piovuto, cosicché abbiamo trasformato la seconda scuola in dormitorio per i manifestanti senza tenda che erano scappati dagli stadi».

Quindi lei non smentisce la polizia, sull’effettiva presenza di violenti nella scuola. 
«Non potevamo chiedere la carta d’identità a tutti quelli che entravano. Ma l’ultima notte sono stati i poliziotti a comportarsi in modo indegno, massacrando ragazzi che dormivano in sacco a pelo. Ai parlamentari che chiedevano di assistere alle perquisizioni mostrando i tesserini, è stato risposto “ficcateveli in quel posto”. Scene di tipo cileno».

Però alcune strade di Genova erano state devastate dalla guerriglia urbana. 
«Perché le forze dell’ordine non hanno bloccato i violenti? Abbiamo filmati in cui si vedono addirittura alcune Tute nere fermarsi tranquillamente a parlare con dei poliziotti. Avevamo noi stessi segnalato alla Questura l’arrivo di frange estremiste da Bologna, e ci avevano detto che era tutto sotto controllo».

Ma i vostri slogan non erano esattamente nonviolenti: anche voi gridavate “Poliziotti assassini!”. 
«Questo è successo dopo l’assassinio di Carlo Giuliani. Ma le nostre parole d’ordine erano ben altre».

E quali erano? 
«Il radicale dissenso contro le politiche internazionali dei Paesi più ricchi. Il G8, forte solo della propria potenza e arroganza, è il simbolo di un sistema di governo non democratico che privatizza gli utili, socializza le perdite e globalizza le ingiustizie».

Slogan a parte, in concreto cosa volete? 
«Per esempio, che il neoliberismo non costringa miliardi di persone a vivere con un dollaro al giorno. Che i farmaci per curare l’Aids siano venduti a prezzi accessibili anche nel Terzo mondo, e non sottoposti all’esosità di multinazionali che ne detengono i brevetti per vent’anni. O che gli Stati Uniti, produttori da soli del venti per cento dell’inquinamento mondiale, accettino gli accordi di Kyoto...»

Agnoletto è un fiume in piena. D’altra parte, è uno abituato a far politica da trent’anni, cioè da quando entrò al liceo Berchet di Milano, lo stesso dove studiava Gad Lerner. 
«Ma allora lui era un estremista di Lotta Continua, mentre io ero considerato un moderato perché stavo nel Pdup, il Partito di unità proletaria di Vittorio Foa».

Un’altra differenza con Lerner è che il futuro direttore del TgUno (oggi a La Sette, dove ha invitato Agnoletto a molti dibattiti) non studiava granché, mentre il futuro capo dei noglobal pigliava tutti otto e nove.

Secchione, Agnoletto proviene dalla solida borghesia milanese. Famiglia di medici e avvocati, fra i quali il padre del codice di procedura penale Giandomenico Pisapia, il cui figlio Giuliano (deputato di Rifondazione comunista) è suo cugino. Anche Agnoletto alle ultime elezioni era candidato nel partito di Fausto Bertinotti, ma non è stato eletto.

E adesso, anche se parla proprio da un palco di Rifondazione nella sua prima uscita pubblica dopo Genova, ci tiene a prendere un po’ le distanze: «Stasera sono qui, ma domani andrò a Loreto per un’assemblea di cattolici, e dopodomani sarò a Roma a incontrare i parlamentari Ds e i giornalisti della stampa estera».

Anche Agnoletto, peraltro, è religioso. Per anni è stato boy-scout, facendo pure una discreta carriera. Contemporaneamente stava in Democrazia proletaria, dove nel 1977 era già il responsabile dei giovani. E proprio il ‘77 è stato l’anno in cui ci furono in Italia le ultime morti in scontri con la polizia: lo studente Lorusso a Bologna, Giorgiana Masi a Roma. 
Quasi un quarto di secolo dopo, in una piazza d’Italia è tornato il sangue.

Agnoletto sente il peso di questa responsabilità, e non si limita a dare tutte le colpe alla polizia: «Di fronte al problema della violenza dobbiamo riflettere anche all’interno del nostro movimento. Cosa dovremo fare nei prossimi cortei, organizzare un nostro servizio d’ordine? Certo, l’autotutela contro i violenti ci vuole, ma così rischiamo di ripercorrere strade pericolose».

Sì, perché Agnoletto sa bene che nei «servizi d’ordine» di alcuni gruppi extraparlamentari le Brigate Rosse arruolarono terroristi a piene mani. 
Lui invece, anche fisicamente e con quella sua vocina, è l’esatto contrario di un certo «machismo da corteo» che si è esercitato a Genova, per esempio nella falange paramilitare delle Tute bianche con tanto di divise, elmi, scudi e maschere antigas.

Agnoletto invece, laureatosi medico, dopo il servizio civile con i tossicodipendenti nel 1987 ha fondato la Lila (Lega italiana lotta all’Aids), diventando anche consulente del governo (incarico toltogli dal ministro Roberto Maroni). 
Sentiremo parlare ancora di questo piccolo grande uomo dalla faccia triste e dalla voce acuta, che parla nervoso con gli occhi spiritati, e agita le mani come Bertinotti.
Mauro Suttora

Tuesday, July 17, 2001

Vertice G8 Genova: radicali filoglobal

di Mauro Suttora

Il Foglio, 17 luglio 2001

Figurarsi se si lasciavano scappare un’occasione così ghiotta. I radicali, sempre felici di cantare fuori dal coro, si lanciano a testa bassa nel dibattito sul vertice G8 di Genova.
 
La loro posizione è netta, radicale appunto: «Globalizzazione? Sì, grazie». È lo slogan del convegno che organizzano oggi a Roma, nella sala dell’Europarlamento, alla vigilia dell'apertura del vertice. 
Un motto che capovolge quello di un quarto di secolo fa: il famoso «Nucleare? No, grazie» di cui a lungo i radicali furono alfieri solitari in Italia, assai prima dei verdi e del referendum vittorioso contro l’atomo civile nel 1987.

Questa volta Marco Pannella ha buon gioco nell’inserirsi dentro una polemica in cui nessuno, tranne i radicali e Rifondazione comunista sul versante opposto, è disposto ad assumere posizioni estreme. Da una parte denuncia «l’esibizionismo rituale e inutile del vertice G8», mentre dall’altra riduce sarcasticamente il popolo di Seattle a «rumorosa eco, assicurata generosamente proprio da una multinazionale: quella mediatica». 

La prova? «In tv gli antiglobalizzatori hanno avuto cittadinanza pressoché esclusiva. Le voci liberali e liberiste sono state cancellate o relegate ai margini della comunicazione». Colpa dei media? Non solo: «Anche i politici, sia di destra che di sinistra, hanno giocato di rimessa, sulla difensiva».

Ci pensano i radicali, dunque, a colmare il vuoto e ad assumersi il ruolo dei pasdaran della globalizzazione. La quale, lungi dall’essere un male, «può produrre nel mondo maggiore sviluppo e libertà». Unica cautela dubitativa, quel «può».
 
Qualche radicale, per rendere ancora più incisivo il messaggio filoglobal, si era spinto fino a proporre un presidio a favore di McDonald’s, davanti a qualcuno degli sventurati punti vendita genovesi della polpetta Usa. Idea accantonata, troppo kamikaze, ma la sostanza resta. 

Così alcune delle migliori menti del liberismo italico (dall’ormai viceministro Mario Baldassarri all’eurodeputato FI Renato Brunetta, dal professor Lorenzo Infantino della Luiss ad Angelo Maria Petroni dell’università di Bologna) sono state convocate da Pannella e Bonino al contro-controvertice, in cui spiegheranno come la liberalizzazione degli scambi sia un fenomeno di inclusione e non di esclusione, un’occasione di riscatto per i più poveri e di aumento degli spazi di libertà per miliardi di persone.

Ai radicali ovviamente sta a cuore soprattutto la globalizzazione della democrazia e dei diritti della persona. Proprio ieri hanno festeggiato il terzo anniversario della nascita del Tribunale penale dell’Onu, da loro fortissimamente voluto (come quelli su ex Jugoslavia e Ruanda), e che entrerà in funzione quando altri 25 Stati ratificheranno il trattato.

Ma, fatalmente, è sui temi economici che si finisce per scivolare quando si parla di globalizzazione. Così l’iniziativa odierna dei radicali rappresenta una loro rentrée sulla trincea liberista e libertaria. 
Dopo le disastrose incertezze della campagna elettorale (in cui Emma Bonino si era ridotta in extremis a sollecitare solidarietà a sinistra, da Franca Rame e dintorni, disorientando così l’elettorato che l’aveva premiata con l’otto per cento nel '99), i pannelliani tornano alle battaglie per la modernizzazione economica che hanno caratterizzato le loro lotte degli anni Novanta. 

Con la sua proverbiale icasticità concreta, ora la Bonino denuncia che «ogni bovino europeo riceve un dollaro al giorno di sussidi, cioè più del reddito con cui tentano di sopravvivere centinaia di milioni di persone».

Insomma, i radicali non vogliono farsi schiacciare a destra, e attualizzano la loro campagna degli anni Ottanta contro la fame nel mondo puntando il dito contro gli sprechi dell’assistenzialismo. Da bravi libertari, non pretendono neanche che la politica «governi» la globalizzazione, ma si limitano ad auspicare che la «accompagni». 

«Gli intellettuali liberali hanno il dovere di dire le cose come stanno, contro il millenarismo dei rimasugli delle culture egemoni, il cattolicesimo e il marxismo», spiega il professor Gaetano Quagliariello, editorialista del Messaggero e relatore al convegno assieme a esponenti della sinistra come il senatore ds Franco Debenedetti, e liberisti classici come Carlo Pelanda e Alessandro De Nicola, presidente dell’Adam Smith Society. 

Iniziativa fuori tempo massimo? «Macchè, il timing è perfetto», assicura l’eurodeputato radicale Benedetto Della Vedova, «noi qui e loro lì a Genova. Quanto alle presunte vittime della globalizzazione, gli africani per esempio, l’apertura delle relazioni commerciali è l’ultimo dei loro problemi».

Sunday, July 01, 2001

Costa Smeralda capitale d'Italia

di Mauro Suttora

mensile Capital, luglio 2001

Costa Smeralda di nuovo capitale politica - oltre che mondana - dell’Italia, come nel 1994. E quindi processioni di politici nella villa del nuovamente presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a Porto Rotondo, con annesse tavolate nei ristoranti e comparsate nei locali.

Ma cosa sale e cosa scende sulla Costa, quest’anno? Fra i ristoranti, immutabile l’appeal del Gallura di Olbia. A Porto Cervo debutta l’elegantissimo Vecchio Stazzo (con ottima musica live), aggiungendosi agli altri «classici» di Liscia di Vacca: Piccolo Ciucheba, Briciola e Rosemary (quest’ultimo preferito dai miliardari inglesi). 

In centro, resiste Su Marineri sotto l’hotel Cervo. Un po’ di stanchezza per Pedrinelli e la Mola, nonostante la clientela affezionata, anche perché all’uscita in agosto il traffico è spesso bloccato dagli aficionados dei locali notturni: in testa, per il terzo anno consecutivo, il Billionaire. A seguire il Sottovento, mentre arrancano Pepero e Sopravento.

La moda dell’estate 2001 è il letto in discoteca, lanciato dal Mama Orsa di Poltu Quatu. Out il Peyote e lo Smaila’s, infestati dai ragazzotti. A Porto Rotondo fra i ristoranti resistono Portico, Giovannino e Clipper, mentre fra i locali si celebra il gran ritorno del Tartarughino, spostato in centro dopo che la precedente location è stata trasformata in villona. Anche il Country si è rinnovato. 

Ma il sogno proibito rimane, anche per l’eccelso Cala di Volpe (gala l’11 agosto con Amii Stewart e il 21 con gli Imagination), la presenza della first lady Veronica Berlusconi. Finora negata a tutti.